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Committenza, trasportatori e dipendenti: tutti sullo stesso fronte per far grande l’Italia.

| Pubblicato in Organi di Informazione
OneRoadMag Alessandro Peron

Intervista ad Alessandro Peron, Segretario Generale Fiap a cura di Cristina Altieri per OnRoadMag, luglio-agosto 2024.

Nelle dichiarazioni del segretario non solo una lucida visione capace di immaginare il futuro del trasporto e della logistica come “dovrebbe essere per non lasciare ai colossi esteri un settore strategico della nostra economia”, ma anche strumenti concreti per procedere a grandi passi lungo un percorso virtuoso.

Da sempre a fianco dell’autotrasporto, fin dalla sua nascita nel secondo dopoguerra, FIAP è tra le associazioni maggiormente rappresentative delle aziende di trasporto e logistica del nostro Paese, nonché l’unica tra quelle che contano - per la verità ben 24 in Italia - a non rientrare nell’orbita delle confederazioni incaricate di portare avanti in primis gli interessi dei loro membri, e dunque quelli dell’industria, del commercio e dell’artigianato.
Un’anomalia tutta italiana che ben ci spiega il segretario generale Alessandro Peron che, grazie ad un background anche imprenditoriale, sta contribuendo ad innestare dinamiche manageriali in un settore piuttosto resistente al cambiamento e all’innovazione. Un settore che sta vivendo in questi mesi anche il rinnovo del contratto collettivo di lavoro e affrontando pressioni sindacali che esulano dai tavoli ufficiali di contrattazione.

Alessandro Peron, un anno importante, questo 2024: facciamo un quadro parlando del lavoro che state portando avanti in vista del rinnovo contrattuale?

Iniziamo con il precisare che il nostro CCNL, che si applica alle imprese di trasporto, logistica e spedizioni, è un contratto che interessa circa un milione e quattrocentomila lavoratori: sono numeri che classificano l’accordo come il secondo per dimensioni a livello nazionale, e alla sua stesura sono impegnate le 24 maggiori associazioni datoriali insieme alle sigle che la legge classifica come rappresentative dei lavoratori, e dunque Filt CIGL, Fit CISL e UILtrasporti.
L’ultima stipulazione è avvenuta in periodo di pandemia, quando ci limitammo, considerata la difficile situazione macro economica e sociale, ad intervenire solo sulla parte economica: oggi con il nuovo disegno stiamo prendendo atto anche del cambiamento radicale delle dinamiche di incontro delle diverse esigenze, e penso ad esempio al bisogno di flessibilità, terreno sul quale convergono le posizioni di entrambe le parti. Con i nostri interlocutori sindacali il dialogo è aperto, sereno, e si può dire che parliamo la stessa lingua, quella che vuole immaginare e realizzare un tessuto di imprese di trasporto e logistica moderne, in grado di portare benessere a tutti i soggetti coinvolti, a cominciare dai dipendenti

Non ci sono però solo i tavoli di lavoro ufficiali. Il fronte dei sindacati autonomi è sempre molto caldo con proteste che arrivano a paralizzare le attività di diverse aziende: qual è la vostra posizione al riguardo?

Premetto di non essere contrario alle proteste: siamo in Italia e i lavoratori hanno il diritto di esprimere la loro opinione, ma il quadro in cui si deve necessariamente sviluppare questa azione è quello della legalità, per mezzo degli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento. Abbiamo una contrattazione in atto per definire le regole del lavoro: con i sindacati autonomi che attualmente non sono né firmatari del CCNL né riconosciuti dallo Stato come rappresentativi esiste un problema di legittimazione, e anche qualora come associazione datoriale volessimo stipulare contratti con i loro rappresentanti, questi sarebbero borderline, e comunque non vincolanti. E, attenzione, non siamo noi né i nostri associati a decidere quali siano i sindacati più rappresentativi, è lo Stato a stabilirlo, e se lo Stato ci dice che dobbiamo dialogare con CIGL, CISL e UIL, e con loro stipuliamo il CCNL, e i nostri soci lo rispettano, noi a quel punto abbiamo portato a termine il lavoro utilizzando l’unico canale di dialogo che possa trasformarsi in una normativa vincolante per tutti. Poi è chiaro che su mille lavoratori possono essercene venti che non gradiscono il contratto, che si identificano in rappresentanti diversi, e insieme a loro avanzano ulteriori pretese: possono certamente farlo, nessuno vieta ai lavoratori di manifestare. Il problema sorge quando il sindacato minoritario per farsi ascoltare oltrepassa i limiti della legalità, e si aggrava quando prefettura e questura scelgono di non intervenire, autorizzando di fatto il perpetrarsi di pratiche di protesta illegali. Faccio l’esempio di una nostra associata che dà lavoro a 500 persone: i 13 dipendenti iscritti ai Cobas hanno organizzato recentemente una manifestazione alla quale sono intervenute 40 persone. Intanto significa che 27 di loro erano estranee all’azienda. Se poi si posizionano davanti agli accessi e impediscono non solo l’ingresso di chi vuole lavorare, ma perfino il transito della merce, allora si sta configurando un illecito. Io rispetto lo sciopero, ma lo sciopero deve similmente rispettare i lavoratori che non aderiscono, così come l’imprenditore che ha il diritto e il dovere di dare continuità all’azienda.

Altrimenti poi succedono tragedie come quella di Biandrate dello scorso anno. 

Esattamente. A Biandrate (dove un sindacalista della sigla S.I. Cobas, Adil Belakhdim, è rimasto ucciso fuori dai cancelli della Lidl, investito da un camionista al lavoro n.d.r.) si è consumato l’atto finale di un’escalation che non può portare a nulla di buono. Ma è chiaro che questa è la terribile conseguenza di un modello di scontro, di ricatto, di violenza, di fronte al quale lo Stato deve intervenire, perché se ognuno per protesta, per quanto legittima, bloccasse il lavoro degli altri, finiremmo per dare significato di democrazia a quella che in realtà è semplice e pura anarchia.

Immobilismo delle forze dell’ordine?

Esiste questa idea, ancora, della contrapposizione tra padrone cattivo e lavoratore sfruttato: un retaggio del passato, un concetto ormai diventato anacronistico. Lo Stato non interviene quando succedono certi episodi perché inimicarsi il mondo sindacale significa passare, nel giudizio dell’opinione pubblica, dalla parte dei cattivi. Ancora una volta, guardiamo alla legalità: se il lavoratore è sfruttato il nostro ordinamento offre copiosi strumenti di tutela. La nostra posizione come FIAP è chiarissima: più controlli. Controlliamo le imprese, e se non rispettano il CCNL, se non rispettano i lavoratori, che non solo vengano comminate multe, ma venga perfino sospesa l’attività fino al ripristino delle regole. Nel rispetto dei lavoratori certamente, ma anche delle aziende virtuose. Purtroppo l’imprenditore molte volte, pur di accontentare il cliente e di garantire il regolare svolgimento del trasporto, scende a patti con i latori di pretese assurde, che quando assecondate diventano solo il presupposto di successive nuove richieste. Ma ancora: i lavoratori dovrebbero rifiutarsi di giocare da pedine in quella che è a tutti gli effetti una semplice guerra del tesseramento, e ricordarsi che i sindacati minori possono promettere mari e monti per convincerli ad affidarsi a loro e intascare la quota associativa, ma la loro esclusione dai tavoli di contrattazione nega ogni tipo di concretezza e di futuro agli impegni urlati nei megafoni.

Dire che il datore di lavoro non sia più “cattivo” potrebbe apparire semplicistico come dire che lo sia ancora…

Certamente non parlo di tutte le aziende. Ma stiamo assistendo ad un cambio di paradigma e sono sempre di più le realtà virtuose che hanno compreso che nel nostro settore, più che in altri, l’uomo è al centro di tutto. Il trasporto e la logistica muovono merce non attraverso camion e muletti, ma attraverso persone che quei camion e quei muletti li guidano, manovrano, organizzano: questo è un settore dove le risorse umane sono le più importanti e come tali devono essere retribuite. Così non sempre succede, certo, ma qual è il tema? Il tema è l’incapacità di molte aziende di trasporto di essere imprenditori e quindi, prima di tutto, di determinare il prezzo del loro lavoro. Alle associazioni sindacali dico: se vi limitate a chiedere un aumento ad un imprenditore i cui utili arrivano a malapena al 3 per cento, la trattativa è in salita. Guardiamo invece ai clienti dei nostri associati, e ai loro utili del 30 per cento. Se il committente invece di un miliardo e 800 milioni di utili ne portasse a casa un miliardo e mezzo, e quei 300 milioni venissero distribuiti, ipotizzo, 100 all’impresa e 200 ai lavoratori, non sarebbe meglio per tutti? Per questo sostengo fermamente che il lavoratore debba fare squadra con il proprio datore di lavoro, anche facendo emergere situazioni non corrette nelle dinamiche con la committenza.
Poi c’è un altro strumento, non trascurabile, nelle mani dei lavoratori: operiamo in un comparto dove mancano all’appello 60.000 figure professionali, tra autisti e magazzinieri. Il dipendente deve imparare a scegliere il proprio datore di lavoro. Anziché protestare, dovrebbe spostarsi su un’azienda in grado di garantire uno stipendio più alto, o magari la mensa o l’asilo nido: quando l’imprenditore che non paga abbastanza rimarrà senza personale allora certamente sarà costretto a scoprirsi sensibile nei confronti dei dipendenti anche lui.

A che punto siamo in questo processo di cambiamento che a ben vedere interessa tutti gli attori, committenza, trasportatori e dipendenti?

Vediamo innanzitutto da dove arriviamo. L’autotrasporto in Italia ha iniziato a diffondersi nel dopoguerra, con la crisi industriale e la nascita della licenza conto terzi: molti dipendenti di grandi aziende si sono inventati padroncini, piccoli imprenditori. Alcuni di loro sono cresciuti nei decenni e oggi hanno dimensioni importanti in termini di flotta, di magazzini logistici. Ma una cosa non è mai cambiata: è da sempre il cliente a scrivere il contratto, e la sua parte economica soprattutto. 
È come se io entrassi in un Apple Store e pretendessi di pagare un iPhone 200 euro, con rate da 5 euro al mese. Sono sicuro che il negoziante mi inviterebbe a cercare altrove. I nostri associati invece cosa fanno? Rispondono che le condizioni imposte vanno bene, poi tornano in azienda e riversano la loro incapacità di negoziare sull’unico costo sul quale possono intervenire, ovviamente il costo del lavoro. 
Come mai in Italia tutte le associazioni, tranne la FIAP, sono organizzate all’interno o sono in qualche modo collegate alle confederazioni, e quindi Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, che rappresentano invece i clienti delle nostre imprese?
Perché queste intelligentemente hanno pensato di creare al loro interno sezioni dedicate all’autotrasporto, invitando i fornitori ad iscriversi, e di fatto negli anni riuscendo a controllarne le rivendicazioni. Che sono state invariabilmente indirizzate allo Stato. Aumenta il gasolio? Anziché chiedere al cliente, le associazioni hanno sempre girato le loro richieste allo Stato. “Se mi fermo io si ferma l’Italia”: un’assurdità, l’imprenditore non sciopera, se si ferma l’autotrasporto tutt’al più si ferma il cliente, non l’Italia. E lo Stato dal canto suo è intervenuto elargendo fondi indiscriminatamente e senza alcun criterio meritocratico, alimentando migliaia di finti imprenditori. Un circolo vizioso difficile da sradicare. Eppure ci stiamo provando.

Anche con il vostro recente protocollo?

Sì, abbiamo stilato un protocollo, si chiama TCR (Transport Compliance Rating), ed è frutto di un osservatorio che abbiamo creato insieme alla grande committenza mettendo a punto il primo rating di affidabilità dell’impresa di trasporto e logistica: oggi i clienti delle nostre aziende possono utilizzare questo indice per operare una scelta consapevole e dare valore ad una serie di parametri tra cui la sicurezza sui luoghi di lavoro e la sostenibilità sociale. È uno strumento per permettere ai committenti, che hanno sempre scelto i loro fornitori solo ed esclusivamente guardando al prezzo, di attribuire rilevanza anche alla qualità dell’impresa. Questo è un modo virtuoso di cambiare il nostro settore perché, forte di tariffe più adeguate, l’impresa di trasporto e di logistica italiana può finalmente crescere. Attenzione, non è un cambiamento alla portata di tutti: su 80.000 imprese ne esistono solo 900 strutturate, che sono quelle con più di 50 dipendenti, e noi ci rivolgiamo a loro. Dobbiamo lavorare contro la frammentazione del comparto, anche delle rappresentanze datoriali che ne discutono gli interessi: il nostro compito oggi è quello di costruire campioni nazionali, incentivarli, e aiutarli a diventare sempre più forti, per il bene di tutti. L’imprenditore, non dimentichiamolo mai, crea ricchezza, per se stesso e per i dipendenti. Se si scoraggia, se si demotiva, la conseguenza è la chiusura dell’impresa o la cessione alle multinazionali.
E allora a quel punto vadano pure i Cobas a scioperare dai colossi dell’e-commerce: da un giorno all’altro si ritrovano il magazzino chiuso e riaperto a 300 km di distanza. Tutti devono comprendere i benefici del passaggio che auspichiamo: un imprenditore forte e virtuoso sarà anche un imprenditore capace di affrontare il cambiamento sociale che ci attende. Il nostro è sempre di più un settore multietnico in cui non è più possibile non mostrare rispetto nei confronti delle diversità culturali. Un imprenditore non può più permettersi, per fare un esempio, di ignorare il ramadan, e parlo anche della committenza: è facile prendere in prestito le belle parole quando si tratta di fare comunicazione e poi mettere sul camion persone che per l’intera giornata non possono bere. 
Il trasporto va rispettato considerando che la merce non si smaterializza per rimaterializzarsi da qualche altra parte. Ci sono dietro persone reali, con le loro caratteristiche, le loro convinzioni e le loro necessità.
Ma ancora di più, favoriamo finalmente la nascita di un sentiment verso le attività logistiche: costruiamo condomini e supermercati con agevoli zone di manovra per chi consegna la merce, realizziamo autostrade con aree di ristoro adeguate per i nostri autisti. 
L’Italia esporta il 50 per cento del suo PIL, davvero vogliamo consegnarlo nelle mani dei grandi gruppi stranieri, davvero vogliamo che siano altri a decidere quanto PIL dobbiamo fare? Non credo. E allora, ancora una volta: aiutiamo tutti insieme i campioni nazionali del trasporto e della logistica a far grande il nostro meraviglioso Paese.

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